DISCLAIMER: I do not own the rights of the music - will be removed upon request.
buy the real thing.
1. Birth 0:00
2. Superplastikclub 5:30
3. Metropolis 9:43
Part 1: Haven’t You Heard?
Part 2: Nostalgia
Part 3: The Dream
Part 4: I’m Leaving The City
4. Dreamweaver 19:38
5. Glass Roofed Courts 26:04
6. Ecliptic 30:53
Part 1: Spaziergang
Part 2: Panic
Part 3: Reassurance
Country: GER
Genre: Krautrock, eclectic prog
- Michael Duwe / vocals, guitar
- Ute Kannenberg / vocals, percussion
- Thomas Hildebrand / drums, percussion, choir
- Helmut Binzer / guitars, choir
- Manfred Opitz / keyboards, vocals, acoustic guitar
- Michael Westphal / bass, choir
Sestetto con base a Berlino, i Metropolis meritano un breve focus per la qualità non del tutto trascurabile del loro unico ed omonimo lavoro, nonché per la scarsità di informazioni, soprattutto in italiano, cosa che spinge “In the wake of progressive”, dedita com’è a riscoprire espressioni sonore progressive poco conosciute, ad occuparsene.
Il gruppo riunisce musicisti afferenti ad esperienze coeve e musicalmente affini, militanti in gruppi diversi della scena berlinese: Il tastierista Manfred Opitz e il bassista Michael Westphal hanno militato negli Zarathustra , il batterista e paroliere Tom Hildebrandt viene dai Mythos, e il cantante Mike Duwe ha appena finito di registrare “Seven Up” con gli Ash Ra Tempel. A loro si unisce la cantante Ute Kannenberg.
La Berlino di quegli anni fioriva di una rinascita artistica che la avrebbe connotata per i decenni a venire, vissuta anche attraverso la riallocazione di strutture pensate per fini totalmente diversi: fu così che la “Wrangel Kaserne“, ex caserma prussiana trasformata in numerose sale prove nel quartiere di Kreuzberg di Berlino Ovest, il luogo in cui la band si chiuse, componendo e arrangiando le tracce per circa un anno (NOTA: la prassi della riallocazione è palpabile a Kreuzberg ancora oggi, dove, a partire dal 1990, numerose ex fabbriche sono trasformate in ostelli e sale musicali pur mantenendo la loro struttura originaria).
Sul finire del ’73 arriva il contratto con la tedesca Ariola, e la band intraprende le registrazioni allo “Studio 70” (dove registrano gli Agitation Free), accompagnata da un ensemble classico di tre elementi, diretto da Hartmut Westphal, fratello del bassista della band, Michael.
Ne scaturisce un lavoro cui l’etichetta di Krautrock – tradizionalmente affibiatagli – è fuorviante: in realtà le esperienze sono molteplici e pescano complessivamente nel tessuto progressivo (inglese ma anche italiano) e nella psichedelia della west coast americana, mentre meno prevalenti paiono i segni della cosmische musik, se si eccettua la profonda divagazione di “Metropolis”, prima delle due lunghe suites che strutturano l’album.
Sotto il profilo strutturale l’LP si pone come una sorta di concept sulla dissoluzione della natura ad opera della società industriale, tema evidente a partire dalla copertina, che raffigura una grigia città inquinare un paesaggio incontaminato.
“Birth” è un buon inizio, con il duo Duwe-Kannemberg impegnato all’unisono su una struttura principalmente di organo e batteria, con qualche taglio di synth e di chitarra elettrica nel finale.
“Superplastikclub” incalza con un soul melodico e jazzato, su cui la voce di Duwe, accompagnata dal piano, fornisce probabilmente la prova migliore. L’eponima “Metropolis” apre in un tourbillon seguito da un uptempo alquanto brutale e sostenuto (si pensi, con le dovute differenze, ad un ‘21st century’ al contrario), ma il tutto dura il giro di una battuta; i successivi minuti propongono un blues a due voci che proprio non brilla per originalità, se non fosse per i fiati che lo ravvivano a fine strofa, fino a metà canzone, in cui tanta esuberanza si arresta dinanzi ad una cortina indefinita di suoni, un patchwork onirico (intitolato non a caso “The dream”, segnalato dal carillon che invita al sonno), probabilmente richiamante gli incubi della modernità; un’escursione cosmica forse un po’ manieristica ma che ha comunque il pregio di sopraggiungere del tutto inaspettata. Le ultime due parti della suite riprendono le tinte soul del prologo, che si accentuano nella successiva “Dreamwaver” dove l’alternanza di ritmiche stili di strofa in strofa, passando da un main theme chiaramente funky (il cantato di Duwe pare davvero voler richiamare James Brown). Il mood generale della parte centrale dell’album non ricorda tanto i grandi del progressive sinfonico – come pure si è scritto – quanto alcune celebri esperienze jazz prog come Colosseum e Affinity. In “Glass Roofed Courts” l’esperimento della fusione di stili riesce meglio: metà folk acustico e metà bossanova, su cui il cantato dei due si fa meditativo, profondo e malinconico, con chiusura affidata al tema principale. (full review at )
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